Latitanza di lusso per Amedeo Matacena. Fermato a Dubai

imageDopo una vita sempre con i motori al massimo, nel mondo dell’imprenditoria che conta, per Amedeo Matacena il naufragio è arrivato a Dubai. Si è imbattuto contro la scogliera eretta dai carabinieri della sezione catturandi del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Reggio Calabria che lo hanno cercato per quasi due mesi, dovendogli notificare l’ordine di carcerazione divenuto esecutivo dopo la pronuncia definitiva della Cassazione che lo ha condannato a cinque anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Dopo il 6 giugno non si era più fatto trovare. Né a Reggio Calabria, dove la famiglia Matacena ha coltivato i propri interessi imprenditoriali, né a Roma e neppure a Montecarlo che è la città dove ha la residenza formale. L’ex parlamentare di Forza Italia sapeva che lo avrebbero cercato e ha tentato la fuga all’estero. Da latitante è stato beccato negli Emirati Arabi Uniti, dove era arrivato dopo un passaggio alle Seychelles. Non un viaggio di piacere, in altri tempi il facoltoso imprenditore si sarebbe trovato a suo agio girovagando in quei paesi, ma una meta non definitiva per cercare il luogo dove mettersi al riparo dagli investigatori italiani che di certo non lo avrebbero mollato facilmente. Infatti così è stato. Hanno monitorato il volo che dalle Seychelles rientrava a Dubai e la polizia araba, in accordo con le autorità italiane, lo ha fermato. Ora sono diversi gli scenari che si aprono sul suo possibile rientro in Italia. Non è escluso che Matacena chieda asilo politico, una richiesta che sarà vagliata dall’autorità competente negli Emirati.

Suo padre, da cui ha ereditato il nome oltre che l’impero economico, è un noto armatore. Amedeo Matacena senior ha praticamente inventato il trasporto via nave nello Stretto di Messina. Il figlio, in politica con Forza Italia, per due volte è stato eletto in Parlamento, nel 1994 e nel 1996. L’inizio della sua fine. In quegli stessi anni i magistrati lo iscrissero nel registro degli indagati nell’ambito del procedimento Olimpia. Nel 2001, viste le sue sciagure giudiziarie che gli avevano portato una prima condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, il partito lo ha scaricato non candidandolo alle elezioni politiche del 2001. Da qui il tira e molla giudiziario durato dodici anni. Nel 2006 era stato assolto in primo grado e la sentenza era stata confermata in secondo grado. L’avvocato generale Franco Scuderi aveva però eccepito la illogicità di quella pronuncia e la Cassazione, accogliendo il suo ricorso, aveva rinviato gli atti alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria. Bisognava valutare, secondo i giudici, la natura del patto che certamente, secondo i giudici, era stato stretto tra l’ex parlamentare e la cosca di ‘ndrangheta Rosmini. L’intercettazione del capostipite di quella famiglia, Antonio Rosmini, risulta fin troppo chiara. Amedeo Matacena era uno che se poteva favorirli, lo faceva. L’accusa ha vinto. Sentenza capovolta e nuova condanna nel 2012, divenuta definitiva il 6 giugno di quest’anno. C’è un terzo personaggio che, secondo Scuderi, avrebbe consentito la triangolazione con i Rosmini. Si tratta di Giuseppe Aquila, ex vicepresidente della giunta provinciale di Reggio Calabria anche lui fortunato in politica grazie allo sponsor speciale che lo ha imposto in quel ruolo dopo una incredibile affermazione elettorale. Matacena, scrivono i giudici nelle motivazioni, non poteva non essere a conoscenza di chi muoveva i fili, di chi fossero realmente i Rosmini e dunque aveva piena consapevolezza della situazione. Anzi, questo patto ha pure fatto un favore alla famiglia di ‘ndrangheta. Perché avere per amico uno come Amedeo Matacena, ne accresce il prestigio.

imageDubai, la città dove Amedeo Matacena si trovava per sfuggire alla cattura, non è una scelta casuale. Un personaggio del suo calibro non ha lasciato nulla al caso e ha probabilmente cercato un paese dove l’estradizione non è proprio una passeggiata. La procedura per consentire il suo rientro è stata avviata immediatamente dalle autorità italiane, che hanno già ottenuto un buon risultato in termini di collaborazione con la polizia araba per la cattura del latitante, ma gli ostacoli da superare non sono pochi. Innanzitutto, tra la Repubblica italiana e gli Emirati arabi uniti non esiste una convenzione che regoli l’estradizione. Sul sito della Farnesina non ve n’è traccia. Normalmente, spiega all’Ora della Calabria l’esperto di diritto penale internazionale Alessandro Maria Tirelli, «la procedura di estradizione è a doppio vaglio». L’autorità giurisdizionale deve verificare se esiste un trattato e bisogna poi valutare la sussistenza della «doppia incriminazione», ovvero l’imputabilità del soggetto ricercato in entrambi i paesi. Il problema giuridico che potrebbe sussistere è l’inesistenza del reato di associazione mafiosa negli Emirati arabi. «Il principio della doppia incriminazione dovrebbe mettere al sicuro Matacena, poiché l’estradizione presuppone che il fatto sia punibile in concreto sia nello Stato richiedente sia nello Stato concedente», ipotizza l’esperto. Un altro scenario è questo. Nel reato per il quale Matacena è stato condannato si potrebbero ravvisare risvolti politici, essendosi concretizzato nel contesto elettorale. Tuttavia «il caso Matacena –rileva l’avvocato Tirelli- presenta probabilmente profili di problematicità in punto di merito». L’ultima parola è comunque riservata all’organo esecutivo del paese che deve decidere se restituire il condannato all’autorità straniera che ne faccia richiesta. «Lo stato richiesto rimane sempre sovrano sul suo territorio e può decidere in ogni caso (anche in presenza di trattato) di non consegnare un individuo».

Esiste poi un’altra ipotesi. «Al di là dell’obbligo di consegna derivante da un impegno di natura internazionale, va sempre considerata la possibilità che il governo degli Emirati arabi ritenga sgradita la presenza di Matacena nel proprio territorio (per motivi di opportunità politica, sociale o per ragioni di mantenimento dei buoni rapporti diplomatici con l’Italia). Potrebbe accadere in astratto che Matacena venga invitato a lasciare gli Emirati arabi uniti o addirittura respinto».

Nell’ultimo anno si è verificato un caso simile di fuga negli Emirati arabi. Nell’aprile dello scorso anno fece scalpore il caso dell’imprenditore di Savona Andrea Nucera, accusato di bancarotta fraudolenta e fermato ad Abu Dhabi. La sua posizione è diversa rispetto a Matacena sia per la natura del reato sia perché il procedimento penale non è definitivo. In quel caso, tuttavia, l’autorità araba ha respinto la richiesta degli italiani di riportarlo nel nostro paese. Una notizia semi-buona, forse, per Matacena.

(Da L’Ora della Calabria del 30 agosto 2013)

Garibaldi fu ferito (in Aspromonte)

“Garibaldi fu ferito/ fu ferito ad una gamba. Garibaldi che comanda/ che comanda ai suoi soldà”. Il famoso motivetto, rimasto nel patrimonio musicale popolare italiano da oltre centocinquant’anni, è nato in Calabria. Dove l’eroe dei due mondi rimase ferito in uno scontro a fuoco, sulle alture dell’Aspromonte. Proprio in questo giorno, nel 1862. Il generale era tornato nel meridione due anni dopo la spedizione dei mille, sbarcando in Sicilia con duemila volontari. Sulle motivazioni della nuova impresa esistono diverse interpretazioni. La situazione geopolitica vedeva ancora Roma e il nord est della penisola fuori dall’unione territoriale raggiunta con tanti sacrifici nel 1861.
GaribaldiProbabilmente Garibaldi volle tentare un atto dimostrativo risalendo verso Roma per spingere verso uno stato più laico, non appartenendogli la cultura di un paese dove le pressioni della Chiesa erano molto forti.
Ricordava ancora l’entusiasmo con cui era stato accolto nel 1860 in Sicilia, quando sbarcò con i suoi mille. Tornato in quelle terre, a chi gli chiedeva il motivo della nuova avventura rispondeva «Andiamo verso l’ignoto. Dopo, sarà quel che sarà». Guardava certamente con occhio attento anche ai moti in corso in Grecia.
L’altro mistero su questa vicenda è l’atteggiamento del re Vittorio Emanuele, che in un primo momento rimase a guardare senza incitarlo ma neppure scoraggiarlo apertamente. Dopo il discorso del generale, che a Marsala terminò con il grido dalla folla «O Roma, o morte», il prefetto Pallavicino non mosse un dito e questo gli fece intendere che il re fosse dalla sua parte. Anche la presa dei piroscafi Abbattucci e Dispaccio senza che la Marina Regia intervenisse (non è chiaro se fu distrazione o finsero di non accorgersene) venne interpretato come un segno favorevole. Ma le cose non sarebbero andate così bene di lì a poco.
L’avventura calabrese di Garibaldi iniziò il 25 agosto 1862 quando Garibaldi sbarcò tra Melito Porto Salvo e Capo d’Armi.
Subito dopo l’approdo, le camicie rosse garibaldine si incamminarono in colonna verso Reggio Calabria. Appena incontrarono il primo reparto regolare, sventolarono i cappelli in segno di saluto, pensando di essere accolti bene. Invece per risposta ricevettero scariche di artiglieria. Garibaldi capì che avrebbe rischiato un sanguinoso conflitto a fuoco e scelse di ripiegare nelle zone interne dell’Aspromonte. Anche le guide si rivelarono ostili. Invece del tragitto breve, che in meno di dodici ore li avrebbe condotti al rifugio dei forestali per il rifornimento, li fecero camminare per quattro giorni e quattro notti, sotto la pioggia. Arrivati al rifugio, le camicie rosse trovarono un’amara sorpresa. Nessuno aveva provveduto al vettovagliamento. Saccheggiarono i campi di patate per sfamarsi, ormai decimati, e molti volontari non tornarono più. Dei duemila partiti alla volta della Calabria, ora ne rimanevano cinquecento.
Il 29 agosto le camicie rosse furono attaccate da un reparto di bersaglieri. Giuseppe Garibaldi era sicuro che si sarebbero accodati a loro quando lo avrebbero visto, ai suoi impedì di reagire perché «sono nostri fratelli», disse, ma non fu così e la giornata si concluse con la disfatta.
Il generale venne ferito a una coscia e un’altra pallottola gli si conficcò nel malleolo. «Non fate fuoco», chiese ai suoi. Mentre si accasciava, aiutato da Cairoli, ordinò «andate fuori gridando viva l’Italia». I bersaglieri tuttavia continuarono a fare fuoco e sul campo rimasero dodici morti e una quarantina di feriti.
Cippo di GaribaldiIl prefetto Pallavicini, che era giunto in Aspromonte, intimò la resa a Garibaldi “a bassa voce e togliendosi il berretto”, scrive Indro Montanelli nella sua storia d’Italia. Il generale era sotto un albero che oggi ha assunto il nome “cippo di Garibaldi”, a Gambarie. Poi venne portato a Scilla e da lì imbarcato per La Spezia nel forte di Varignano.

(da L’Ora della Calabria del 29 agosto 2013)

La musica, la sua filosofia e l’ineffabilità

image“La musica e l’ineffabile”. Non ho mai letto questo saggio di Vladimir Jankèlèvitch ma il titolo mi ha sempre affascinato. Ne parlavamo spesso con Roberta commentando i suoi studi di estetica musicale all’università. Le lunghe e impegnate discussioni ci ristoravano piacevolmente dai rispettivi e diversi percorsi accademici, tra un libro di economia e uno spartito. Roberta mi avrebbe prestato il suo libro dopo avere superato l’esame ma non ce n’è mai stato il tempo. Poco male, la filosofia è bella proprio perché non la puoi racchiudere in un testo. In qualunque momento puoi lasciarti andare in voli mentali che ti portano ovunque tu voglia. Io continuo a farlo da sempre e lo farò anche ora, senza alcuna velleità se non quella di… volare.
Trovo che sia estremamente difficile dare una definizione di musica, perché non si può contenere un pensiero così ampio, che impegna il sentire interiore, in poche parole. Il vestito sarebbe troppo stretto.
Guardando lo Stretto di Messina dalla Rotondetta sul lungomare di Reggio Calabria, mentre ascoltavo la musica jazz del progetto inedito Fata Morgana (bravissimi Mauro Ottolini, Carla Marciano e Aldo Vigorito), ripensavo proprio alla filosofia della musica e al titolo del saggio di Jankèlèvitch. Mi è tornato in mente quando la mia collega Alessia era indecisa se scrivere un pezzo dopo il concerto, reputandosi “non esperta”. Certo che devi, non c’è bisogno di conoscerla, la musica, per capire se ti piace oppure no.
Ho pensato al grande dono della musica. Ti libera, tu non hai alcuno spartito da seguire per ascoltarla, e anche i musicisti che dovrebbero seguirlo possono fare deviazioni inaspettate, come l’improvvisa imitazione di Mauro Ottolini col suo trombone quando l’atmosfera era stata sporcata dall’allarme di un’automobile.
La musica è quella “cosa” (ve l’ho detto che è difficile trovare un’altra definizione) che rende tutti uguali. Non ha razza, età, gradazioni sociali. È stranissimo pensare che un’arte in realtà così precisa, con scansioni temporali, dimensioni, pause ben delineate in una perfetta geometria matematica riesca a sublimare l’anima. Non tutti gli uditori sanno leggere uno spartito o possono dirsi esperti della materia. Tutti però ascoltano e si lasciano prendere per mano dalle note musicali. Io ascolto perché la musica mi piace, e mi basta. La ascolto perché dietro, anzi dentro, c’è sempre qualcosa. Ci sono io. L’interpretazione che diamo alla musica che ascoltiamo ci dice chi siamo e come stiamo in preciso momento. Ecco perché la musica è lo specchio della nostra anima.
Jankèlèvitch non l’ho letto però ho trovato questa frase interessante girovagando su internet. Ve la ripropongo, pensando al nostro bisogno di cercare sempre altro, quello che non si vede ma sappiamo che esiste, con l’augurio di continuare nella nostra ricerca incessante: “Decifrare nel sensibile non si sa qual messaggio criptico, auscultare dentro e dietro un cantico qualcosa d’altro, percepire nei canti un’allusione ad altro, interpretare una cosa ascoltata come allegoria di un significato inaudito e segreto: ecco i tratti permanenti di ogni ermeneutica applicabili anzitutto all’interpretazione del linguaggio…”.