L’antimafia a parole e il silenzio di chi lavora

Più leggo le carte giudiziarie che riguardano Rosy Canale e più mi schifo. Proprio lei che la sera prima a Cosenza aveva fatto piangere tre quarti di teatro con la sua storia di resistenza alle mafie, il giorno dopo viene arrestata per truffa. L’operazione eseguita dai Carabinieri si chiama “Inganno”. Mai nome fu più azzeccato. Quando arrivano i soldi che dovevano servire ai progetti dedicati alle donne di San Luca è tutta contenta. Telefona alla figlia e ai genitori, li informa di avere già speso quei soldi. Sì, ma non per finalità benefiche. Tutt’altro. Per comprare vestiti e beni destinati proprio ai suoi familiari. “Ma non sono soldi tuoi”, la rimprovera la madre. “Me ne fotto”, dice Rosy Canale. E la figlia le chiede una borsa Louis Vuitton o quella a marca Fendi da 450 euro che ha già visto. Per la cocca di mamma, che cresce a pane e antimafia di facciata, evidentemente, viene persino comprata una minicar con il denaro pubblico. Un’altra macchina Rosy Canale la compra per sé. Intestata al movimento Donne di San Luca, ovviamente. Ma utilizzata per scopi personali. La malafede ci sta tutta se allegramente ammette di essersi fatta fare un contratto di noleggio, forse per non destare sospetti. A mettere le mani sui conti è sempre lei. Per calmare le donne di San Luca, che avevano visto in Rosy Canale l’occasione per scrollarsi di dosso l’immagine di guerra e morte appiccicata loro dai cognomi Pelle, Nirta, Strangio, Vottari, concede loro il contentino di qualche migliaio di euro. Regalato e percepito come compenso… di cosa?
La ludoteca che era sorta nel paesino aspro montano, con tanto di inaugurazione in pompa magna, è stata chiusa dopo poco tempo. Per mancanza di fondi. Eppure erano arrivati 160mila euro, tutti gestiti dalla signora Canale. Una beffa anche il laboratorio artigianale per produrre il sapone. L’intraprendente imprenditrice reggina aveva preso accordi per comprarlo all’ingrosso già confezionato e rivenderlo. Lei stessa si è fatta carico di partecipare a una fiera, portandosi saggiamente dietro la foto che la ritraeva con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Bastavano poche parole chiave come antimafia, San Luca, Strage di Duisburg per ammorbidire i suoi interlocutori e una saponetta costata pochi centesimi andava via per cinque euro come niente. Oltre tremila euro di incassi. Ma al telefono, alle donne di San Luca, Rosy Canale raccontava che era stato difficilissimo vendere le saponette, che era riuscita a malapena a incassare ottocento euro e addirittura ci aveva rimesso le spese di viaggio. Questi pochi episodi la dicono lunga sul suo carattere. Tralasciando di quando sperava di incontrare l’allora ministro Giorgia Meloni (che le aveva concesso un contributo di cinquemila euro) per fare presa anche su di lei e farle dare un impiego retribuito al Ministero.
Nei giorni immediatamente successivi all’arresto di Rosy Canale, numerosissimi sono stati i commenti sul grande inganno. Molti, manco a dirlo, sono arrivati dal mondo dell’antimafia “ufficiale”. Come se ci fossero etichette nella resistenza all’illegalità diffusa. Anche quelli mi fanno schifo. Quelli che hanno avuto l’ardire di parlare pur percependo anche loro soldi pubblici per le famose manifestazioni nelle scuole, in piazza, persino sugli sci in settimana bianca. Invece non ho sentito una sola parola da chi combatte seriamente, quotidianamente e in silenzio il malaffare e non ha freddo pur tenendo sempre arrotolate le maniche perché il lavoro è continuo. La vera antimafia da campo non si lascia in inutili commenti contro qualcuno. Ho sempre sentito parlare quella antimafia solo “per”, mai “contro”. Per fare proposte, per chiedere aiuto, per invocare un sostegno vero alle proprie attività. E’ così che si combatte l’illegalità. Dando l’immagine positiva del lavoro, perché solo in questo modo i ragazzi di oggi acquisiranno il valore del fare legale che li renderà liberi domani.

Un pensiero su “L’antimafia a parole e il silenzio di chi lavora

  1. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” del 10 gennaio 1987 a firma di Leonardo Sciascia.
    L’articolo era intitolato “I professionisti dell’antimafia” e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'”antimafia come strumento di potere”, come mezzo per diventare potenti ed intoccabili
    Citare Borsellino come “esempio di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato certamente un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool.
    Questo dimostra che anche i grandi intellettuali possono sbagliare.
    C’è da rilevare,però’ ,che ancora qualcuno persiste ,per ignoranza ,nell’errore.
    Non siamo tutti uguali !
    Che ci sia ,poi ,chi approfitta della lotta alla mafia per i propri affari,questo siamo i primi a denunciarlo ma certo non si possono offendere le vittime e soprattutto coloro che di quest’impegno ne hanno fatto ragione di vita.

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