“E io pago!” – Il nuovo dopoguerra

La fantasia dei produttori di fuochi artificiali non ha limiti. Quest’anno i botti natalizi si arricchiscono di un artificio pirotecnico che evoca la drammatica attualità: “E io pago”. I finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Cosenza ne hanno sequestrati parecchi, quasi sei tonnellate. Accanto a “Zeus” e “Star War” che si affidano all’immagine di grandezza di vicende mitiche e mitologiche per descrivere meglio la potenza del prodotto, la quotidianità prende il sopravvento e la battuta di Totò nel film “47 morto che parla” diventa simbolo di un momento economico difficile che va esorcizzato. Più è forte il botto, maggiore sarà il senso liberatorio. Occhio agli artifici illegali, l’avvertimento è quasi superfluo.
In realtà la questione va oltre la curiosità dei nomi attribuiti ai botti di Natale. Dietro il velo del materiale c’è la voglia di uscire da questa situazione pesante per tutti, la rabbia dei cittadini ridotti alla fame nei confronti di chi sperpera. Hanno la consapevolezza di una società sempre più sperequata.
“E io pago!”. La pellicola di Totò da cui è tratta la nota frase risale al 1950, in un periodo in cui la fame c’era davvero (quando mia nonna ricorda il dopoguerra le vengono tuttora le lacrime agli occhi). Eppure il cinema andava forte. Perché la gente aveva bisogno di ridere, di evadere dai problemi quotidiani. Oggi il film di Checco Zalone è nei primissimi posti al botteghino. Un boom inaspettato. La storia si ripete. Abbiamo ancora bisogno di ridere. Siamo in un altro dopoguerra.

La morte, l’amore e l’energia di un sorriso. Vagando tra i ricordi.

Se c’è una cosa che rende gli uomini tutti uguali, questa cosa è la morte. Nessuno vi sfugge. “A morte o ssaje che r’è? È una livella”, recitava Totò nella sua celebre poesia. Presto o tardi, la fine della vita arriva per tutti. Purtroppo a volte giunge troppo presto, repentinamente oppure dopo un calvario inaccettabile. Ognuno di noi, oggi, può raccontare storie di persone care strappate in fretta a questa vita e dell’ingiustizia che non siano più tra noi. Come spiegare a una madre perché il suo bambino è stato ucciso per la manovra sbagliata di un’automobile, o per una malattia non diagnosticata o per qualunque altro motivo di salute non prevedibile e curabile? Non è facile accettare la morte. Né quella degli altri né riusciamo a pensare alla nostra, convinti che per noi ci sarà ancora tempo. Ma non sappiamo quanto, forse semplicemente non vogliamo parlarne prima che quel momento arrivi con l’illusione di allontanarlo un poco.

Sono convinta però di una cosa. Se è vero il principio fisico secondo il quale in natura niente si distrugge ma tutto si trasforma, allora questo deve essere vero anche per gli uomini. Ogni essere vivente ha un’energia che trasmette agli altri. Anche inconsapevolmente. Vi capita di essere stati colpiti da un atteggiamento, da uno sguardo, da qualcosa di impercettibile che vi attrae e vi lega all’altro? È una bella sensazione. Rende più leggeri. Nella mia vita ho incontrato molte persone così. Gente che non ha fatto nulla per farsi ricordare da morta eppure quando la penso mi si apre il sorriso sulle labbra ancora oggi, a distanza di anni, perché ne ricordo le parole, i gesti affettuosi, persino il profumo. È così per il ricordo di mio padre, mi viene in mente la sua fronte corrucciata e l’espressione seria quando era preoccupato ma anche il suo aspetto gioioso nello stare insieme agli altri. È così per zia Clara della quale le mie papille gustative assaporano ancora il caffellatte con i biscotti che mi preparava a merenda e la fragranza delle sue inimitabili cassatelle alla mostarda. È stato così per Sandro, al quale mi ha legato un’attrazione intellettuale breve ma intensa, di lui ricordo la serietà nel suo lavoro e la non curanza di lasciare il posto da protagonista ad altri perché l’importante era fare qualcosa di buono. Ricordo anche i miei bisnonni, di quando nonno Peppino a dodici anni chiese la mano di Milia “i Greco”. Il padre di lei scoppiò in una fragorosa risata e rispose: “Pensate a crescere”. Pippino “i Rocco” alla fine l’ha sposata davvero a Milia. Ha attraversato la guerra e la prigionia per tornare da lei e dai tre bambini avuti insieme. L’ultima figlia l’aveva lasciata ancora nel grembo della sua donna. E da lì è iniziata la loro vita durata oltre sessant’anni.

Che strano, avevo iniziato a parlare di morte e mi ritrovo a parlare di amore. Non sempre è un binomio che va bene. Il troppo amore può persino uccidere. O meglio, l’ossessione di amare e voler essere amati, a tutti i costi.
Scrivo queste righe anche per le donne che hanno subito violenze e per esprimere pietà nei confronti degli uomini incapaci di farsi amare con la dolcezza.

Scrivo queste righe per chi non c’è più e ha lasciato il suo segno anche solo sfiorandoci. Con l’augurio di trovare sempre questi segni indelebili nel nostro cuore e di lasciarli sugli altri.