Viaggi di speranza (per non morire disperati)

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Non so se riusciremo mai a capire davvero cosa c’è dentro quei barconi che d’estate arrivano sulle coste calabresi e siciliane stracolmi di persone. Giuridicamente li etichettiamo come “extracomunitari”… che brutta parola. Sono persone. Persone. Con la propria dignità di essere umano che non vale meno di quella di ognuno di noi.
Quando li vedo ammassati su quei pescherecci sudici, penso a quanta disperazione possa indurre un uomo o una donna a intraprendere un viaggio verso l’ignoto. La risposta è paradossalmente semplice, contenuta in una sola parola: speranza. Io e la mia generazione non lo possiamo capire. Siamo nati con la camicia, abbiamo avuto presto il nostro primo motorino, il cellulare, il computer, la macchina, e anche una buona educazione tutto sommato, la possibilità di andare a scuola e frequentare l’università. La guerra l’abbiamo vista soltanto nei documentari e i più fortunati hanno sentito dai nonni (o dai bisnonni , nel mio caso) le storie della costruzione delle barricate sotto gli inglesi che “trattavano bene i prigionieri italiani, a volte ci fermavamo e senza farci vedere fumavamo pure qualche sigaretta” (a questo punto il mio bisnonno Peppino partiva con la sua tipica risata asmatica). “Avevo fame e camminavo scalza”, racconta mia nonna con gli occhi lucidi e sbarrati al solo ricordo dei morsi della fame che le contorcevano lo stomaco. Mentre mi parla, guarda al cielo come fosse in attesa che arrivi il pacco dall’America ad alleviare la sua sofferenza.
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Il mondo è cambiato ma la crudeltà dell’uomo rimane sempre la stessa. E’ dalla guerra e dalla fame che si scappa. Dalla paura di morire ammazzati. Noi non possiamo saperlo cosa hanno visto gli occhi di quei bambini dalla pelle scura che i genitori affidano al destino nella speranza di una vita migliore. Non possiamo immaginare il loro stato d’animo mentre trascorrono giorni e giorni in mare, senza vedere altro che acqua.
Dovremmo provare ammirazione per questi viaggiatori speciali con una valigia piena solo della voglia di libertà e di ricostruire la propria vita. E invece li temiamo o, ancora peggio, li respingiamo senza conoscere le loro storie. Loro sperano di trovare un mondo migliore al di là del mare. Ma non sono convinta che lo sia.
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Informativa “sui” giornalisti? Scopelliti s’informi meglio. Basta gettare fango sull’informazione in Calabria

Per favore, abbia la bontà di smetterla!
Le fantomatiche rivelazioni del presidente Giuseppe Scopelliti su una presunta indagine della Procura di Catanzaro “sulla gestione dell’informazione da parte di alcuni giornalisti, credo cinque o sei, che fanno informazione in maniera poco corretta” sono un’accusa gravissima nei confronti di chi fa questa professione in Calabria. A Peppe può non piacere ciò che viene scritto della sua (dis)amministrazione e dell’enfasi che qualche collega ha dato sulle sue sospette frequentazioni o su quelle dei suoi amici, delle indagini che hanno colpito esponenti del Pdl o di chi ruota direttamente o indirettamente attorno a lui. Pazienza, ma se ne faccia una ragione. Non mi risulta che alcuno sia rimasto intimidito dai suoi continui attacchi alla stampa, per fortuna, dunque non si stupisca se i fiumi di inchiostro sul suo conto non sono ancora esauriti.
Ma torniamo alle sue frasi sconnesse pronunciate contro quei “cinque o sei giornalisti”. Punto primo, Scopelliti parla di un’informativa della squadra mobile di Reggio Calabria e di una presunta inchiesta aperta a Catanzaro ma senza fornire gli estremi di cosa sta parlando. Detta così, non si capisce se è una notizia certa o se l’ha sentita dire. Nella seconda ipotesi, temo che non l’abbia compresa bene o non ne sapeva granché nemmeno chi gli ha fatto questa soffiata. Ma di quale soffiata stiamo parlando, poi? E qui arriviamo al punto secondo. Se si tratta di quello che ho intuito, la famosa informativa è quella redatta da squadra mobile e carabinieri insieme e l’indagine non riguarda direttamente i giornalisti ma un professionista della città di Reggio Calabria. Un avvocato, per essere chiari, sul quale gli investigatori nutrivano sospetti. È del tutto normale che un avvocato intrattenga rapporti con i giornalisti e che dall’altra parte sia da essi ricercato, soprattutto se si occupa di un aspetto particolarmente interessante per il periodo storico in cui si inquadra questa storia. Non c’è alcun mistero, dunque. Per inciso, non risulta che siano mai stati presi provvedimenti né a carico del professionista né dei giornalisti che con lui hanno interloquito.
Questa informativa oggi è pubblica perché depositata nei due processi che vedono imputati esponenti della famiglia Lo Giudice, sia a Catanzaro che a Reggio Calabria. Ma questo il governatore non lo sa oppure… non voglio dirlo… sarebbe peggio se facesse finta di non saperlo e manipolasse -lui- questo caso per buttare fango e sospetti addosso a chi non fa parte della sua corte.
“…se c’è veramente una indagine, una informativa, indipendentemente da come andrà, noi vorremmo sapere perché già il fatto stesso che ci sia stata una indagine su queste vicende è una cosa forte. Vuol dire che c’è una parte dell’informazione che riguarda un gruppo di persone impegnate a manipolarla. Io lo ritengo un fatto grave”, ha dichiarato Scopelliti. La cosa veramente grave, caro presidente, è che lei si sia lasciato andare in questo soliloquio sconclusionato parlando di una cosa che non conosce affatto per attaccare -di nuovo- la categoria dei giornalisti. Non è la prima volta, il disco lo conosciamo a memoria ormai. Per suffragare questo clima di sospetti si lascia andare pure un “avevamo captato in questi anni qualcosa”. Direbbe Totò: “Ma ci faccia il piacere!”.
Per cortesia, pensi solo a fare il suo mestiere (meglio: ad amministrare bene e per il bene della collettività). Sono sicura che i colleghi di tutte le testate giornalistiche continueranno a fare il proprio dovere di informare i cittadini. Come sempre, che le piaccia o no.

Caso Rappoccio, tra l’ignavia del consiglio regionale e le dimissioni a tempo

Proveranno a spacciarlo per garantismo ma la questione non si può risolvere con un atteggiamento attendista. Il reintegro di Antonio Rappoccio nel consiglio regionale della Calabria fa accapponare la pelle. Attualmente a giudizio per avere messo in piedi una truffa elettorale, cioè di avere costituto società apposite per promettere posti di lavoro finti a tanti giovani disperati in cerca di occupazione, indagato per un altro grave procedimento per un’ipotesi di peculato, eppure si è di nuovo seduto sullo scranno a palazzo Campanella dopo la revoca della misura cautelare. Di più, la regione Calabria si è costituita parte civile contro di lui al processo. E, ancora di più, i consiglieri regionali lo hanno accolto come il figliol prodigo. Solo uno ha espresso voto contrario al reintegro si Rappoccio (Mimmo Talarico), tutti gli altri hanno assecondato il consigliere a giudizio. Un minimo di dignità, per favore! Il reato di truffa elettorale è talmente grave che avrebbe dovuto indurre i consiglieri a una scelta diversa. Invece nulla.
Dopo avere incassato la fiducia e il reintegro, Antonio Rappoccio ha convocato una conferenza stampa per annunciare le sue dimissioni. Non a partire da subito però. Vuole godersi l’estate col titolo di consigliere regionale (che in Calabria spacciano per “onorevole” emulando i dirimpettai siciliani) e solo a settembre rimetterà il mandato. Un’altra cosa ancora più ridicola. Quando i giudici hanno revocato la misura cautelare, hanno giustificato il provvedimento con l’inesistenza, in quel momento, di una struttura con la quale Rappoccio potesse reiterare i reati contestati. In conferenza stampa ha assicurato che rinuncerà alla struttura, evidentemente impaurito dal tintinnio delle manette che potrebbero scattare di nuovo. Però al consiglio regionale è arrivato con un autista e a mandare il comunicato stampa è stata una persona di sua di sua fiducia, una collaboratrice. Dunque non sono i primi due elementi di una struttura?
C’è anche un altro aspetto, grottesco davvero, in questa vicenda. Qualche giorno fa è nato un anonimo comitato “Nessuno tocchi Rappoccio” che inneggiava alla bontà del consigliere regionale. Anzi, sarebbe un eroe perché a vorrebbe contribuito a smascherare tutti quei giovani che credono alle sciocchezze come quella di essere assunti in un’azienda fantomatica in concomitanza con una tornata elettorale. La giustizia faccia il suo corso, il truffatore, se colpevole, deve pagare. E speriamo che il caso serva da lezione.

Società barbara

“Imbarbarimento della società civile”. L’attento Capo dello Stato Giorgio Napolitano non poteva trovare un’espressione migliore per descrivere il livello di questa Italia. Le offese del leghista Roberto Calderoli al ministro Cecile Kyenge non sono per niente una “battuta simpatica” come ha tentato di sminuire. Sebbene l’uomo sia “un animale razionale” (cit. Aristotele) a nessuno farebbe piacere essere paragonati a un orango, senza offesa per i quadrupedi. L’uomo è pure un animale sociale, aggiungeva il filosofo, e qui sta il vero problema. Quale società è quella in cui un ex ministro della Repubblica si permette di usare toni così ruvidi nei confronti di un rappresentante delle istituzioni? La nomina del presidente del Consiglio Enrico Letta di una donna di colore nel suo esecutivo è stato un fatto di portata storica, piaccia o no alla Lega. In molti paesi la multirazzialità si è rivelata una risorsa, noi invece ancora ci nascondiamo dietro il finto protezionismo italico. Ma non è questo il punto. I toni usati dalla politica attuale farebbero rabbrividire i maestri della dialettica del Parlamento degli anni Settanta e Ottanta. La deriva che da un ventennio a questa parte siamo finiti non ci fa onore. Francamente non mi sento rappresentata da chi usa toni così poco elevati. Ci sono modi e modi pure per offendere, insomma. “Avevo appena detto che sarebbe un’ottima ministra… in Congo. Va benissimo come ministro ma a casa propria”, ha rincarato la dose Calderoli chiamato a chiarire la frase incriminata. Non si è sentito punto nemmeno di striscio dall’ondata di sdegno sollevata dopo le sue dichiarazioni. Ignoranza e cocciutaggine sono una bomba micidiale, miscelate insieme. Dio salvi l’Italia.

BBB (non più) Bene Bravi Bis

BBB in altri tempi mi avrebbe fatto venire in mente alla serie tv con Franco e Ciccio “Bene Bravi Bis”. Ma queste tre lettere dell’alfabeto oggi non fanno ridere. Tutt’altro. L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato l’Italia a una infima categoria di affidabilità. Praticamente prossima allo junk, cioè alla spazzatura. Aspettavamo un’iniezione di vita, invece ce ne arriva una quasi letale. Questo declassamento avrà perlomeno l’effetto di un potente anestetico perché ben pochi investitori stranieri avranno voglia di rischiare i loro capitali nel nostro Paese. La conseguenza è che la ripresa tarderà ancora ad arrivare. Non siamo certi messi bene. E poi quella parola, junk=spazzatura, è davvero brutta e offensiva per un popolo che ha sempre cercato di cavarsela con dignità. Ma noi, cosa possiamo farci noi che la mattina ci alziamo e andiamo a lavorare per guadagnarci la pagnotta? Cosa c’entriamo con il rating, le speculazioni finanziarie, tutte queste cose che non si vedono ma che determinano il futuro del paese in cui viviamo?
Negli ultimi mesi le notizie di economia hanno affollato giornali e siti web. Prima c’era la spasmodica rincorsa allo spread, che ben pochi sapevano (e continuano a sapere) cosa fosse ma comunque andavano a spiare “a quant’è”. Prima ancora le oscillazioni terribili in borsa e il crollo finanziario. È sempre questa entità immateriale a dettare legge, ormai da tantissimi anni. Io so solo che il mio lavoro è concreto, anche se intellettuale. Scrivo con una tastiera, mando i miei pezzi a chi li pubblica e li vedo, li tocco. Cosa c’entro, io, con la finanza, il rating e la spazzatura? La facessero differenziata, almeno loro, capirebbero finalmente che è l’economia reale a mandare avanti il mondo.